
Lo spumante è molto apprezzato dagli amanti del vino e i motivi sono diversi.
È apprezzato per la complessità di profumi e sapori, la versatilità e la piacevole effervescenza, sferzante o delicata, ricca o cremosa, a seconda della tipologia che andremo a scegliere.
Ancora oggi, però, restano alcuni preconcetti legati agli spumanti.
Molti pensano che siano vini da aperitivo o che una buona bollicina debba essere stappata solo in occasioni speciali. Nulla toglie che questo tipo di vino possa accompagnare qualunque momento di convivialità e che si presti molto bene all’accostamento con innumerevoli pietanze.
Un vino da consumare quindi a tutto pasto e non solo in abbinamento a delicate preparazioni a base di pesce o verdure. Ci sono infatti spumanti freschi, leggeri, dai profumi sottili e delicati, ma anche spumanti profondi, intensi, dotati di grande spessore e densità.
Cosa determina queste sostanziali differenze tra uno spumante e l’altro? Il metodo di produzione.

Come si realizza uno spumante?
Si parte da un vino base. Questo si trasforma in spumante attraverso la fermentazione di una soluzione zuccherina aggiunta e addizionata di lieviti, sviluppando anidride carbonica fino a raggiungere una pressione di almeno 3 bar.
Per raggiungere questo risultato si utilizzano principalmente tre metodi: il Metodo Classico (rifermentazione in bottiglia), Metodo Charmat o Martinotti (rifermentazione in autoclave) e Metodo Tradizionale o Ancestrale sui lieviti (rifermentazione in bottiglia in modo naturale).
Ogni metodo di produzione comporta naturalmente sostanziali differenze nel prodotto finale, in termini di colore, profumo, gusto, effervescenza e persistenza.

Il Metodo Classico
Come ogni vino, lo spumante nasce in vigna.
Qui devono essere vendemmiate uve dotate di buona acidità e spiccati profumi. Per questo motivo la raccolta tendenzialmente è anticipata ed è seguita da una pigiatura soffice accompagnata da diraspatura.
Dolo la vinificazione è il momento della presa di spuma. Qui interviene lo chef de cave, addizionando al mosto una miscela, composta da zucchero, lieviti e sostanze azotate, che riattiva la fermentazione in bottiglia. I saccaromiceti iniziano a trasformare lo zucchero comune in saccarosio, producendo 1 atmosfera ogni 4 grammi (in genere se ne inducono 6, immettendo 24 grammi di zucchero).
Segue l’imbottigliamento nelle classiche bottiglie champagnotte, scure e spesse, e la chiusura con provvisorio tappo a corona. Mentre l’anidride carbonica lentamente si accumula nel vino, sui fondi si depositano le fecce, formate dai lieviti esausti, che nell’arco di mesi, talvolta anni, arricchiscono il vino di sostanze aromatiche pregiate.
Queste fecce vengono compattate posizionando le bottiglie, su appositi cavalletti traforati, inclinate verso il basso, facendone roteare la base con regolarità nel corso dei mesi (operazione un tempo effettuata a mano, oggi perlopiù meccanicamente). Le fecce vengono finalmente espulse tramite sboccatura, di solito ghiacciando il collo della bottiglia, per poterle eliminare in blocco e lasciare limpido il resto del vino.
Le bottiglie vengono rimboccate con lo stesso vino o con liquore di spedizione, una miscela diversa per ogni produttore, che può contenere vino, mosto, distillato di vino e zucchero di canna. Dopo la chiusura con il tappo a fungo, la capsula e la gabbietta sono pronte per l’invecchiamento. Sarà proprio la quantità di zucchero del liquore di spedizione a determinare la tipologia di spumante ottenuto.
Gli spumanti si classificano quindi in base al loro residuo zuccherino come segue:
– Dosaggio Zero o Brut Nature: inferiore a 3 g/l; lo spumante non ha subito aggiunta di zucchero dopo la presa di spuma;
– Extra Brut: compreso tra 0 e 6 g/l;
– Brut: inferiore a 12 g/l;
– Extra Dry: compreso tra 12 e 20 g/l;
– Secco o Dry: compreso tra 17 e 35 g/l;
– Demi-sec o Abboccato: compreso tra 33 e 50 g/l;
– Dolce o Doux: se superiore a 50 g/l.
Il Metodo Charmat
Il metodo Charmat segue un iter diverso, che valorizza gli aromi varietali rispetto a quelli della rifermentazione. L’elemento chiave è l’autoclave, il capace recipiente in acciaio, resistente alla pressione e refrigerato, dove si compie la rifermentazione.
Al termine del processo di vinificazione, al mosto vengono addizionati zucchero, lieviti e sostanze azotate. Il mosto con le aggiunte, viene poi immesso nelle autoclavi, per una rifermentazione di almeno sessanta giorni.
Seguono un travaso isobarico con filtrazione, finalizzato a eliminare le fecce, e l’imbottigliamento, anch’esso isobarico, per non disperdere pressione e anidride carbonica.
Dopo la tappatura, sono sufficienti pochi mesi prima della messa in commercio. Per preparare uno spumante dolce si può interrompere la fermentazione quando il rapporto tra zuccheri e anidride carbonica è ottimale, raffreddando il vino a -4 °C.
Metodo Tradizionale o Ancestrale
Quando si parla di Metodo Tradizionale o Ancestrale ci si riferisce alla tecnica di spumantizzazione più antica tra le varie tecniche ancora oggi in uso. Ai tempi dei nostri nonni, infatti, era tradizione che lo spumante venisse prodotto lasciando rifermentare naturalmente il vino in bottiglia, grazie al residuo zuccherino rimasto dopo il processo di vinificazione.
Il metodo ancestrale inizia pressando le uve in modo soffice e delicato, così da conservare i lieviti autoctoni presenti sulle bucce. La fermentazione avviene a temperatura controllata in recipienti di acciaio inox. Successivamente, la temperatura viene abbassata in modo da rallentare la fermentazione e infine bloccarla. La ripresa della fermentazione si riavrà dopo l’imbottigliamento, quindi è fondamentale che il contenuto degli zuccheri residui sia sufficiente senza ulteriori aggiunte.
La tradizione richiede che si aspettino i mesi di marzo e aprile per far sì che la temperatura salga quanto basta per permettere l’inizio della fermentazione degli zuccheri residui. Gli enzimi e lieviti presenti nel vino tendono, come dicono i francesi, a rendere il vino “petillant” ossia frizzante, inibendo la formazione di anidride carbonica in eccesso. Le bottiglie si conservano, poi, in cantina in ambiente oscuro e in assenza di vibrazioni a una temperatura che si aggira attorno ai 12-15°C fino al termine del processo. Nel metodo ancestrale prevalgono le note lievitate e citrine, l’effervescenza è meno persistente mentre acidità e sapidità sono marcate, ma piacevoli e armoniche.
Il bicchiere da spumante
Nell’immaginario comune si è soliti pensare che i bicchieri siano tutti uguali e che non vi sia differenza in base alla bevanda che si andrà ad assaporare. Non è così, il bicchiere è un importantissimo strumento e la sua forma deve essere adeguata alle caratteristiche del vino.
Personalmente trovo che la flûte, calice dalla caratteristica forma stretta e allungata, e la mezza flûte non rendano giustizia a nessun tipo di spumante. L’idea che la loro forma possa permettere di apprezzare il perlage di uno spumante a livello visivo, risulta a mio avviso non determinante ai fini della degustazione.
Meglio utilizzare un calice di dimensioni standard e dalla forma regolare. Questo tipo ci permette di valutare ogni aspetto di quel vino, analizzandolo alla vista, all’olfatto e al gusto.
Al contrario, trovo adatta la coppa, usata tradizionalmente per degustare i vini spumanti dolci. Grazie alla sua ampia apertura riesce a disperdere e stemperare la dolcezza data dal residuo zuccherino. Può rivelarsi uno strumento eccellente per la degustazione degli spumanti.
Piccola nota conclusiva. Non essendo io un amante dei luoghi comuni ne vorrei sfatare uno legato al servizio dello spumante.
Non è vero che uno spumante non si possa far roteare nel calice per non perdere effervescenza. Nessuno spumante di qualità ha bollicine tanto evanescenti da sparire al contatto con l’aria o con la superficie del bicchiere.
Non si deve esagerare, questo è vero, ma si tratta di una regola valida per tutti i tipi di vini. La roteazione ininterrotta del vino nel calice non farà emergere nulla che non si possa percepire aerando delicatamente la massa, che si tratti di uno spumante o di un vino fermo.
Luca Gardini